Sardegna, costa sud orientale, siamo all’ancora in una cala riparata e il tempo scorre piano, rallentato dall’immobilità del luogo; Giuli getta in mare minuscole molliche di pane per richiamare qualche pesciolino affamato, quando pronuncia un frase destinata a diventare storica: “Certo ci vorrebbe qualcosa di più adatto per pescare”. Rovisto di malavoglia nel fondo di un gavone per cercare un rotolo di nylon e qualche amo, con la certezza dell’inutilità dell’opera. Passo tutto a Giuli accompagnato da qualche semplice indicazione di montaggio e mi preparo ad assistere alla conferma delle mie certezze, che trovano inevitabilmente il pesce vincitore e il pescatore sconfitto, ma come si dice: in fondo è solo un gioco per passare il tempo. Ma la sconfitta brucia e Giuli mi restituisce l’attrezzatura visibilmente delusa, e io, nel tentativo di consolarla, mi metto a pontificare, da vero teorico della pesca: -La mollica di pane non tiene sull’amo, ci vorrebbe del formaggio e si potrebbero pescare le occhiate, però il bolentino a fondo non è adatto ci vorrebbe qualcosa per tenerlo in superficie; infine dovremmo allontanarlo dai gommoni per non spaventare i pesci, insomma ci vorrebbe un “palamito di superficie derivante!”-.
Giuli mi guarda seria incapace di capire se dico sul serio o scherzo e in mancanza di una soluzione certa mi risponde con un ironico: “Lo pensavo anch’io!”.
Sulla strada del ritorno ripenso al “palamito di superficie derivante” e a colazione, del giorno dopo, ho in testa il progetto con tutti i dettagli esecutivi. Così tra una tazza di latte e un caffè annuncio con enfasi: “Adesso realizziamo il palamito di superficie derivante!”. Tutti mi guardano perplessi e manifestano reazioni diverse: Ila mi ride in faccia senza ritegno, Giuli pensa che forse faccio sul serio, Pat in una sorta di ascetica rassegnazione pensa: “Tutte a me!” mentre Simo e Pie, avendo perso la dissertazione teorica del giorno prima, si guardano consapevoli che forse è meglio non sapere. Ho volutamente preso tutti di sprovvista e prima di scontrarmi con le inevitabili resistenze l’ingegnere che c’è in me prende il controllo della situazione e comincia a impartire ordini, con risoluta determinazione: “Portami due bottiglie di plastica, recupera il vassoio della carne di ieri sera, dove è finito il nastro adesivo?”. Giocare d’anticipo spesso funziona e tra un consiglio e un lamento ugualmente ignorati termino l’opera: alla fine un piccolo catamarano con un vassoio per la carne come vela, battezzato unanimemente “Occhiata I”, fa bella mostra di se sul tavolo di cucina.
Incredibilmente il manufatto assolve egregiamente il suo compito, tanto che alla fine riesce anche a catturare un’occhiata suicida guadagnandosi così un posto stabile in un gavone del gommone.
Incredibilmente il manufatto assolve egregiamente il suo compito, tanto che alla fine riesce anche a catturare un’occhiata suicida guadagnandosi così un posto stabile in un gavone del gommone.
Preparativi per il ritorno: valige, vestiti, attrezzature da sub e attrezzature nautiche sapientemente amalgamate in un caos solo apparentemente controllato e alla fine arriva la domanda: “Cosa ne facciamo di Occhiata I?”. Una domanda ovvia, spesso ottiene una risposta di identica ovvietà: “La gettiamo nel contenitore della plastica, e tanti saluti!”. Naturalmente come progettista e costruttore sono fermamente contrario alla logica implacabile del “rifiuto differenziato”; cerco di argomentare che qualunque nave, per quanto piccola, non merita il disonore della demolizione, ma mi accorgo di non avere seguito e mi guardo intorno alla ricerca di qualcuno che dia credito alla mia tesi, quando i miei occhi incrociano quelli di Giuli, senza una sola parola, ho la consapevolezza che stiamo pensando entrambi alle stessa cosa. “Mettetela lì e domani mattina la sistemiamo prima di partire”, è la mia laconica risposta. Sarà stata la necessità di sbrigare faccende più urgenti o forse sarà stata l’abitudine di tutti alla mie “levate di ingegno”, ma le obiezioni che mi ero aspettato non arrivano e la cosa viene rimandata al giorno dopo.
Alle sei del mattino, pronti al viaggio di ritorno, siamo sulla banchina del molo di Porto Corallo, dove fino al giorno prima erano ormeggiati i gommoni; con grande cura Ila e Giuli provvedono ad ormeggiare Occhiata I al suo nuovo posto quando cogliendo tutti di sorpresa esclamo: “In nome di Dio taglia!”.
Istantaneamente dieci occhi assonnati mi guardano con un’aria interrogativa. Capisco di non potermi sottrarre ad una spiegazione e dico: “È la frase di rito che tutti i Direttori del varo pronunciano per autorizzare la Madrina al taglio della sagola che libera la bottiglia di champagne sul fianco della nave da varare”. “Volendo sorvolare sul fatto che non abbiamo una bottiglia di champagne e una nave” - replica immediatamente Pat, improvvisamente diventata esperta di cose marinare, ma - “A essere precisi questo non è nemmeno un varo ma solo un ormeggio”. A questo punto le mie repliche diventano vaghe e confuse suscitando sorrisi a stento trattenuti; per troncare la discussione dico, allora: “Era da sempre che desideravo farlo”. Pat improvvisamente rassicurata sulle mie capacità di raziocinio mi guarda con uno sguardo indulgente e mi dice: “Va bene Capo Varo leviamo gli ormeggi altrimenti perdiamo il traghetto, perché siamo già in ritardo”.
Sulla strada del ritorno cerco di immaginarmi il comprensibile stupore dei nostri vicini di ormeggio quando troveranno, al posto di due rispettabilissimi gommoni, un “aggeggio” galleggiante, per di più regolarmente ormeggiato. A stento trattengo un sorriso, pensando al lato comico della cosa, ma ho la certezza che nessun marinaio del porto getterà “Occhiata I” nel cassonetto dei rifiuti differenziati.
FANTASTICO IL POSTO MA SOPRATTUTTO L'IDEA DI OCCHIATA 1...GENIALE
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