30 dicembre 2011

Ero e Leandro



Costa orientale del Peloponneso, siamo di ritorno dall’isola di Lefkada e ci stiamo dirigendo verso il nostro approdo nel porto di Mytikas, la giornata è passata rapida e forse abbiamo indugiato troppo a lungo prima di riprendere la rotta di casa. Un crepuscolo di infiniti colori ci sorprende in mare e dopo poco ci troviamo a navigare in un’oscurità arrivata troppo presto. Per sicurezza riduciamo l’andatura, rassegnati a un rientro fatto di sorrisi disinvolti per mascherare il senso d’ansia che tutte le volte ci prende durante le navigazioni notturne.
La nostra rotta è tale che le luci di Mytikas sono oscurate dalla montagna e nel buio della navigazione notturna mi ritrovo a pensare al mito di Ero e Leandro: tragiche vittime di un’oscurità senza luce.




La leggenda narra del giovane Leandro, che viveva ad Abydos, e amava perdutamente la bellissima Ero, Sacerdotessa di Afrodite, che abitava invece a Sestus, le due città affacciate sulle coste opposte dell’Ellesponto. Ogni notte Leandro, sfidando le tenebre, attraversava il canale a nuoto per incontrare la sua amata Ero che, per aiutarlo, accendeva una lucerna, la cui luce guidava Leandro nel buio. Ma una notte di tempesta il vento spense la lucerna di Ero e Leandro, senza più una guida, vagò nelle tenebre fino a perdersi e morire affogato. Ero attese a lungo l’arrivo dell’amato e alle prime luci dell’alba vide il corpo senza vita di Leandro, che il mare pietoso aveva riportato a riva. Sconvolta per l’accaduto Ero salì sulla rupe più alta e si tolse la vita gettandosi, nello stesso mare che aveva preso il suo amore.




Improvvisamente in lontananza appaiono le luci di Mytikas, la loro vista è sufficiente a cancellare la spiacevole sensazione di angoscia suscitata dai miei pensieri, sensazione che viene immediatamente sostituita dalla rassicurante visione di un aperitivo a base di Ouzo, consumato con gli amici nella taverna del porto.




Se, a distanza di anni, ripenso a quella sera, trovo irrazionale l’angoscia provata per un viaggio tutto sommato tranquillo, su una rotta sicura; eppure, in quella notte scura, nel fondo del mio cuore, sono certo di aver provato, pur un brevissimo attimo, la stessa angoscia di Leandro, smarrito su un mare nero alla disperata ricerca di una luce di guida verso l’approdo sicuro.
Ancora adesso, però, sono convinto che in quel brevissimo attimo il passato e il presente si siano fusi insieme nei medesimi rituali, nelle medesime emozioni senza tempo, emozioni che hanno lo stesso ritmo, lo stesso respiro salmastro, che l’acqua marina reca con sé.








27 novembre 2011

Il mare


Il mare incanta, il mare uccide, commuove, spaventa,  fa anche ridere, alle volte sparisce, ogni tanto, si traveste da lago, oppure costruisce tempeste, divora navi, regala ricchezze, non dà risposte, è saggio, è dolce, è potente, è imprevedibile. Ma soprattutto: il mare chiama.


Non fa altro, in fondo che questo: chiamare.


Non smette mai, ti entra dentro, ce l’hai addosso, è te che vuole. Puoi anche fare finta di niente, ma non serve. Continuerà a chiamarti.
Questo mare che vedi e tutti gli altri che non vedrai, ma che ci saranno, sempre, in agguato, pazienti, un passo oltre la tua vita. Instancabilmente, li sentirai chiamare.
Succede in questo purgatorio di sabbia. Succederebbe in qualsiasi paradiso, e in qualsiasi inferno.


Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare, che ti chiamerà.


[Oceano mare – Alessandro Baricco]




 

16 novembre 2011

Lighea




Quella notte ci sarebbe stato il plenilunio. Erano ventotto giorni che Lighea aspettava.
Lighea era la guardiana del faro. Costretta a una vita da eremita passata all’interno della torre con il solo scopo di custodire e preservare il bene più prezioso del piccolo paese di pescatori.
Una vita intera passata in solitudine, giorno dopo giorno nell’attesa del sopraggiungere delle tenebre per accendere la lanterna, era un compito di grande responsabilità che richiedeva una dedizione assoluta. I pescatori del villaggio che uscivano di notte sfidando il mare e le tenebre avevano un'unica certezza la luce del faro gli avrebbe guidata al ritorno, e così quando le tenebre gli avvolgevano in una morsa di terrore volgevano lo sguardo verso terra e la luce del faro di Lighea scaldava loro il cuore e li rassicurava.
Una leggenda più vecchia del faro, più vecchia perfino del paese stesso, diceva che la guardiana del faro non doveva guardare il mare per non subirne il potere incantatore, potere che poteva addirittura trasformare le fanciulle in sirene.
Lighea sapeva dell’importanza del suo compito e mai sarebbe venuta meno ai suoi doveri e tutto sommato la vita di solitudine non le pesava poi così tanto. C’era solo una cosa della quale aveva una tremenda nostalgia: il mare, così vicino eppure così straordinariamente lontano.

Ma le notti di luna piena erano il suo riscatto. Illuminato dalla luna l’immensa distesa del mare, vista dall’alto del ballatoio, appariva allora diversa: non più massa scura gravida di paure, ma distesa argentea che perdeva ogni traccia di malevolezza fino a diventare perfino rassicurante.

E ogni ventotto giorni il mare arrivava puntuale per parlare a Lighea, per sussurrarle le sue storie: storie di marinai coraggiosi, storie di viaggi avventurosi ai confini del modo, storie di amori struggenti e di odi furibondi, storie di un mondo separato dal suo da un diaframma sottile come un respiro.




Questa è la storia di Lighea, la guardiana del faro, la bambina che amava tanto il mare e che non lo avrebbe mai più guardato, la bambina che con il suo amore era però riuscita ad accarezzargli il cuore, diventando la sola a cui regalava le sue storie meravigliose.




16 ottobre 2011

La terrazza di Borea


Grecia meridionale, siamo sull’isola di Kythira e da qualche giorno il Meltemi soffia con implacabile determinazione impedendoci di effettuare le nostre consuete scorribande lungo costa.
Stanchi della forzata inattività decidiamo di visitare l’interno e la nostra prima meta è il monte Agios Georgios in cima al quale, ci hanno detto, si gode della magnifica vista della costa del Peloponneso e del canale di Creta. La sommità del monte forma una sorta di terrazza naturale sulla quale è stata edificata una chiesa in onore di San Giorgio, meta dei pellegrini durante la festa del Santo patrono. 




Con poco entusiasmo ci arrampichiamo lungo una strada che assomiglia più a un sentiero da capre che a una strada vera e propria, mano a mano che ci avviciniamo alla vetta la strada peggiora sempre di più e solo la trazione integrale del Land Rover ci permette di arrivare in cima.



L’impegno nella guida non è stato da poco e spero, con poca convinzione, che ne sia valsa la pena; ci fermiamo e appena sceso ho la netta sensazione di essere arrivato in un luogo unico: quasi magico.



Mi affaccio alla balaustra e la vista è di una tale bellezza da togliere letteralmente il respiro, il vento forte ha pulito l’atmosfera e verso sud si scorge nitidamente la baia di Avlemonas e, complice la suggestione, mi pare di scorgere la costa di Creta.



La sorpresa maggiore la riserva però il lato nord: riesco a scorgere in basso la baia di Diakofti con l’isolotto di Prasonissi e il suo relitto, sullo sfondo si staglia la costa del Peloponneso con il mitico capo Malea.




Mi perdo nell’osservazione di quella visione e l’emozione mi trasporta indietro di duemilacinquecento anni: vedo la nave di Ulisse avvicinarsi faticosamente al capo, poi d’improvviso sento il vento di Borea che mi soffia sulla faccia e immagino i marinai di Ulisse nel disperato tentativo di governare la barca per evitare di essere trascinati verso sud, oltre Kythira, sento le urla e le imprecazioni di una lotta disperata contro le forze degli Dei che spingono la barca sempre più lontano da casa, verso chissà quale destino.

Una mano sulla spalla e la domanda di Pat mi strappa improvvisamente dalla mia visione e mi riporta alla realtà: “Un posto veramente magnifico con la sua chiesa persa tra le nuvole”.

“È vero”- rispondo di istinto – “È talmente bello che non mi sorprenderei che fosse stato visitato dagli Dei dell’Olimpo, magari il Dio del vento del nord seduto in paziente attesa di un coraggioso marinaio che voleva solo tornare a casa”.




25 settembre 2011

Onde



Mi volto indietro e vedo le onde della mia navigazione.
Onde che si perdono con monotona geometria sinusoidale.
Onde che il mare di specchio ingoia avido, in lontananza.
Onde che ritornano mare di specchio dove il mio sguardo non arriva.
Mi volto avanti e vedo un orizzonte senza meta, fin dove il mio sguardo arriva.

Onde come ricordi, ricordi come onde di una navigazione lunga una vita.





1 settembre 2011

'O mare


"'O mare fa paura"
Accussì dice 'a ggente
guardanno 'o mare calmo,
calmo cumme na tavula.
E dice 'o stesso pure
dint' 'e gghiurnate 'e vierno
quanno 'o mare s'aiza,
e l'onne saglieno
primm' a palazz' 'e casa
e pò a muntagne.

 


Certo,
pè chi se trova
cu nu mare ntempesta
e perde 'a vita,
fa pena.
e ssongo 'o primmo
a penzà ncapo a me:
"Che brutta morte ha fatto
stu pover'ommo,
e che mumento triste c'ha passato".
Ma nun è muorto acciso.
È muorto a mmare.
'O mare nun accide.
'O mare è mmare,
e nun 'o sape ca te fa paura.



..........
Io quanno 'o sento,
specialmente 'e notte,
cumme stevo dicenno,
nun è ca dico:
"'O mare fa paura",
ma dico:
"'O mare sta facenno 'o mare".


[ 'O Mare: Edoardo de Filippo (1968) ]






27 luglio 2011

Le visitatrici


Il crepuscolo è un momento particolare perché racchiude in sé l’istante del cambiamento tra giorno e notte, è una terra di confine dove i contorni delle cose assumono tratti sfumati, quasi indefiniti.




Se, in questo momento, vi trovate in prossimità di una spiaggia potreste essere testimoni di un evento che talvolta accade in circostanze misteriose: potreste vedere emergere dal mare, nell’oscurità che avanza, forme indistinte, dapprima semplici ombre che, con andatura incerta, avanzano verso la spiaggia.
Non chiudete gli occhi perché questa sorprendente magia si compie nell’arco di un brevissimo attimo; solo allora potreste riconoscere, in quelle forme indefinite, figure dalle sembianze umane che al sopraggiungere della completa oscurità saranno sparite, quasi inghiottite dal buio.




Quelle figure sono le sirene che, nelle notti senza luna, emergono dalle profondità del mare riacquistando, solo per poco, il loro aspetto umano.

- Sono visitatrici, provenienti da un altro mondo che, spinte dalla curiosità, vengono a vedere il nostro mondo sfavillante di luci e suoni.
- Sono visitatrici, provenienti da un altro mondo che, all'alba, ritorneranno da dove sono venute, abbandonando per sempre un mondo così diverso dal loro.



Se al crepuscolo eravate in prossimità di una spiaggia, e siete stati testimoni di una magia, serbate nel profondo del vostro cuore il ricordo, non lo dividete mai con nessuno, perché chi non ha visto, per quanti sforzi possa fare, non riuscirebbe a capire.


28 giugno 2011

Dove finisce il mare


- Avete perso qualcosa?
- No sto lavorando.
- Lavorando?
- Sì, faccio…. faccio delle ricerche, sapete, delle ricerche…..
- Ah.
- Delle ricerche scientifiche, voglio dire…..
- Scientifiche.
- Sì.
- Conchiglie, licheni, cose del genere?
- No, onde.
Così: onde.




- Cioè…. vedete lì, dove l’acqua arriva…. sale sulla spiaggia e poi si ferma…. ecco, proprio in quel punto, dove si ferma…. dura proprio un attimo, guardate, ecco, ad esempio lì…. vedete dura solo un attimo e poi sparisce, ma se uno riuscisse a fermare quell’attimo…. quando l’acqua si ferma, proprio quel punto, quella curva…. è quello che io studio. Dove l’acqua si ferma.
- E cosa c’è da studiare?
- Be’, è un punto importante…. a volte non ci si fa caso, ma se ci pensate bene lì succede qualcosa di straordinario, di…. straordinario.
- Veramente?
Si sporse leggermente. Si sarebbe detto che avesse un segreto da dire quando disse - Lì finisce il mare.




Il mare immenso, l’oceano mare, che infinito corre oltre ogni sguardo, l’immane mare onnipotente - c’è un luogo dove finisce, e un istante – l’immenso mare, un luogo piccolissimo e un istante da nulla. Questo voleva dire.

[ Alessandro Baricco: Oceano mare ]



24 giugno 2011

La pittrice di tramonti


Mi ricordo di quando la vidi per la prima volta come se fosse oggi, avevo visto entrare il postale e mi ero messo a correre in direzione del porto; il suo arrivo, una volta al mese, rappresentava l’unica variante alla vita monotona della mia piccola isola e ciò giustificava la mia premura.




Quando arrivai alla banchina lo stupore arrestò improvvisamente la mia corsa: i marinai del brigantino erano tutti allineati sulla banchina al limite della passerella, lei avanzava lenta, si fermava davanti a ciascuno di loro, allungava una mano in una rapida carezza e sussurrava qualcosa, che la distanza non mi permetteva di udire; fu allora che vidi qualcosa di unico: a turno i marinai abbassavano il capo tenendo tra le mani giunte il lurido berretto che si erano tolto mentre alcune lacrime gli rigavano il volto. Mi sembrava impossibile, ma quegli uomini resi duri da una vita intera passata sul mare che si commuovevano per una cosa così normale come un addio. Per ultimo perfino il Capitano si scoprì il capo e piegando la testa accennò a un ossequioso saluto.




Fu allora che lei si girò verso di me e mi guardò fisso: gli occhi celesti incorniciati da lunghi capelli biondi e sulla bocca un sorriso dolcissimo, si avvicinò e mi disse: “Mi tratterrò sulla tua isola per qualche tempo e mi hanno detto di chiedere a te per un alloggio”. Solo dopo qualche istante riuscii a vincere l’imbarazzo di cui ero preda e replicai: “A casa abbiamo una stanza in più che la mamma le potrebbe affittare, ma è solo una stanza e la casa è distante, quasi in cima alla collina”. “Si vede il mare?” – Replicò, continuando a sorridere – “Sì, certo” risposi, chiedendomi che interesse potesse mai avere. “Allora andrà bene, accompagnami” disse lei, porgendomi la mano.
Lungo la strada la curiosità ebbe la meglio sul riserbo e l’educazione e chiesi: “Come mai è venuta qui?”. “Sono una pittrice – mi disse – ho saputo che questo è un posto bellissimo per dipingere e sono venuta a vedere”. Una pittrice, venuta apposta dal continente sulla mia isola, e proprio a casa mia; il mio entusiasmo giovanile si scatenò, e le parole mi uscirono con la forza di un’onda: “È vero, io conosco tutta l’isola e, se vuole, gliela posso mostrare, posso anche portarle gli attrezzi, non ho mai visto un pittore, posso guardarla mentre dipinge?”. “Se la mamma è d’accordo mi puoi accompagnare anche domani” replicò guardandomi con indulgenza.
La mattina del giorno dopo eravamo nel punto più alto dell’isola e lei mi aveva mostrato come montare il cavalletto e preparare i colori; tutto era pronto e lei cominciò a dipingere tracciando sulla tela una sottile linea orizzontale e poi più nulla: ore di muta attesa con lei che fissava l’orizzonte e io che fissavo lei nell’attesa che un qualche movimento rompesse l’immobilità.




Nel pomeriggio, facendomi coraggio, le domandai: “Perché non dipinge, osserva il mare immobile quasi si aspetti che accada qualcosa”. “Voglio dipingere il tramonto, perciò dobbiamo aspettare che arrivi” mi rispose seria. “Non capisco, perché siamo venuti al mattino se poi dobbiamo aspettare tutto il giorno per fare qualcosa?”. Replicai seguendo la mia giovanile razionalità. Lei mi fissò negli occhi e mi disse: “Il tramonto dura quanto un battito di occhi, ma impiega un intero giorno per prepararsi, io lo studio durante tutto il giorno in modo da essere pronta a catturare la sua rapida magia ”. Annuii facendo finta di aver capito e mi rassegnai ad aspettare. L’attesa si protrasse fino a che il sole cominciò a lambire l’orizzonte, solo allora, improvvisamente rianimata, lei cominciò a dipingere come rapita da una sorta di frenesia. Quando il sole fu sparito sulla tela era comparso un meraviglioso tramonto pieno di colori, quasi che i colori si fossero impressi da soli sulla tela bianca.




Nei giorni successivi fui con lei tutte le volte e tutte le volte, per una sorta di magia, la tela mi restituiva alla vista l’immagine del tramonto che avevo visto, ma i colori erano sempre più accesi, quasi vivi.
Un giorno le chiesi: “Perché dipingi solo tramonti?”. “Dove vivo non si possono vedere tramonti come questi, così quando ritornerò i colori di questi quadri mi scalderanno il cuore”. Mi rispose con gli occhi velati da una strana malinconia. La cosa mi parve strana anche perché pensavo che, in fondo, i tramonti erano sempre uguali.
Un giorno durante la solita attesa mi guardò seria e mi disse: “Domani devo partire, devo rientrare”.
“Non puoi farlo! - replicai stizzito – non mi hai ancora insegnato come si dipinge”. “Hai ragione, non sono riuscita a mantenere la mia promessa, purtroppo il mio tempo è finito, però tornerò, te lo prometto”.
Non replicai e mi misi seduto da una parte con aria imbronciata manifestando la mia contrarietà con un mutismo rigoroso; sapevo però che quello che diceva non poteva essere vero: il postale sarebbe arrivato solo tra una settimana e quindi potevo contare ancora qualche giorno in sua compagnia.
La mattina del giorno dopo ero sulla solita pietra lungo la strada ad aspettarla ma lei non arrivò, aspettai per molte ore invano e, nel pomeriggio, rientrai a casa dalla mamma, anche lei stupita per non averla vista per tutto il giorno. A sera, dopo aver bussato alla sua porta, la mamma corse in paese per avvertire il comandante del porto che lei non era rientrata.




La cercarono per diversi giorni e diverse notti ma nessuno sull’isola l’aveva vista, e dopo quel giorno, nessuno la vide mai più; dissero che forse era caduta dalla scogliera e che il mare l’aveva presa.
Prima che venissero a prendere le sue cose, volli andare a vedere per un ultima volta i suoi quadri ma, al loro posto, trovai solo tele bianche: quei bellissimi tramonti, che avevo visto creare, erano spariti, dissolti nel nulla.


Mi accorgo di essere improvvisamente stanco, è stata una giornata faticosa, piena di visite e di domande a cui rispondere, ma adesso è sera e posso finalmente concedermi al sonno ristoratore, chiudo gli occhi e, dall’oscurità del dormiveglia, lentamente mi appare il suo volto.
Quasi fosse la cosa più naturale del mondo, le dico: “Sei tornata, ti ho sempre aspettato, non ho mai smesso di sperarci”. “L’avevo promesso ed eccomi qua” mi risponde con lo stesso sorriso di allora.
“Vieni”. “Dove vuoi portarmi?”. Le chiedo. “Andiamo nel mio mondo”. Mi dice prendendomi per mano come allora. Improvvisamente vedo il mare: non sono dentro ma divento parte di esso. “ Ma allora tu sei…”. Non riesco a finire la frase per l’emozione. “Quel giorno, dunque i marinai avevano capito”. “Hanno passato tutta la vita al confine tra il loro mondo e il mio sviluppando una sensibilità che  consente loro di vedere oltre all’apparenza delle cose, adesso però andiamo devo finire di insegnarti a dipingere”.

Al mattino l’infermiera constatò che la sua morte era avvenuta durante la notte, nella sua carriera professionale aveva visto la morte su i volti di tanti malati, ma sul volto di quell’uomo c’era un’espressione di fanciullesca felicità mai vista prima, la stessa che aveva intravisto, solo per un attimo quando, appena ricoverato, si era accorto che dal suo letto poteva vedere il mare.

1 maggio 2011

Su una bolla d'aria


Riuscite ad immaginare qualcosa di più immateriale dell’aria: ci circonda, non potremmo vivere senza, ma per quanto ci sforziamo non riusciremo mai ne a vederla ne ad afferrarla.




Eppure se chiudiamo il nostro immateriale elemento in un sacco, ecco che improvvisamente si compie una splendida alchimia: l’aria acquista un consistenza impensabile fino ad un attimo prima e diventa improvvisamente una cosa solida.




Aria e acqua: una evidente affinità lega entrambi gli elementi, entrambi non possiedono una forma propria ma, per contro, la loro natura è tale che, lasciati liberi, tendono ad occupare tutto lo spazio circostante.
Aria e acqua: affini ma condannati però ad una reciproca repulsione, quasi come amanti impossibili destinati a fuggirsi per l’eternità.




Quante ore ho passato a contatto con questi due elementi, se chiudo gli occhi rivedo le infinite miglia percorse di incontenibile libertà.
Forse essere davvero liberi è la possibilità di viaggiare per mezzo di un elemento talmente libero che nessuno riesce ad afferrare, talmente libero che, se riesci a conquistarlo, ti premia donandoti la sua stessa libertà.



25 aprile 2011

La baia del Navàgio


Isola di Zacinto, il mare è deserto e ormai navighiamo da qualche ora. Sulla superficie immobile i gommoni avanzano con implacabile monotonia mentre la costa ci scorre di fianco in un susseguirsi di insenature dove le rocce riflesse sulla superficie del mare creano effetti ottici dai colori mutevoli, quasi una sorta di magnifico caleidoscopio creato solo per i nostri occhi.
Ad un tratto nella costa si apre la profonda ferita di una cala dove il mare si colora di un azzurro assoluto orlato, sul fondo, da una spiaggia di sabbia bianca. Le pareti che circondano la cala sono molto alte e il sole non è ancora arrivato ad illuminare direttamente l’interno; in lontananza lo spettacolo mi appare come una visione irreale: dove i contorni degli oggetti a terra sono sfumati dall’illuminazione diffusa mentre il mare per contrasto appare ancora più illuminato e vivo.




Entriamo e via, via che la distanza si riduce distinguo sulla spiaggia una macchia scura che contrasta con il candore della spiaggia, un battito d’occhi e la macchia appare per quello che è: il relitto di una nave depositata a riva dall’impeto delle onde.
Siamo entrati nella baia del Navàgio, immortalato da innumerevoli cartoline e foto pubblicitarie, ma la realtà che ci circonda è infinitamente diversa dalle immagini che ho visto fatte di colori urlati più per richiamare l’attenzione che per registrare una realtà evidente.




Siamo soli, sospesi dentro uno scenario fatto di immobilità irreale, non un rumore oltre al ronzio del fuoribordo, il mare è mosso dall’onda di prua, anche i colori non sono più quelli di prima e perfino l’azzurro del mare è diventato più freddo, quasi ostile.
La furia delle onde ha spinto la nave sempre più in profondità, all’interno della baia, fino gettarla sulla spiaggia, condannandola per sempre alla vista di tutti coloro che, nel tempo, sono stati più attratti dall’oggetto che dal fatto. La nave è oramai ridotta a patetico oggetto violentato dalle scritte di coloro che, immaginando di conquistare un frammento di immortalità hanno scritto il proprio nome e la data sulle lamiere corrose dalla ruggine.
Non posso fare a meno di domandarmi perché lo stesso mare che ha sempre accolto nelle silenziose profondità della sua quiete i relitti di tutte le navi che lo hanno attraversato ha qui negato la propria l’ospitalità a questa nave, quasi fosse colpevole di un reato di gran lunga peggiore all’arroganza della sfida di chi lo attraversa.




Mare che con la furia delle tue onde hai condannato quella nave allo scempio di un naufragio senza pace dimostra un atto di clemenza e utilizza la forza di quelle stesse onde per accoglierla finalmente insieme alle altre.


(ναυάγιο [navágio], il naufragio)






18 aprile 2011

Spiros e la sua barca


Creta, costa meridionale, siamo all’ormeggio al centro di una piccola cala; la superficie del mare è immobile e nella calura del primo pomeriggio sono sdraiato con la faccia rivolta verso il mare aperto. Gli occhi sono socchiusi per l’intenso riverbero del sole quando, scorgo in lontananza il profilo di una barca, la presenza mi appare subito strana, la zona, è frequentata solo da qualche altro gommone di turisti e poco più. Incuriosito continuo l’osservazione e dopo qualche tempo mi rendo conto che la barca è ferma, ma la distanza mi impedisce di capire il perché. Passa qualche ora e la barca mi appare sempre immobile all’orizzonte così, vinto dalla curiosità, decido alla fine di avvicinarmi per investigare. Il motore fuoribordo che ci spinge riduce rapidamente le distanze e, dopo poco, riconosco una barca con un solo occupante seduto al centro; un cenno del suo braccio e capisco che forse possiamo essere di aiuto. Arrivati sottobordo ci affianchiamo e riconosco la barca che ho visto spesso ormeggiata nel piccolo porto. Il mio sguardo percorre tutta la lunghezza della barca, il cui notevole stato di usura rivela tutta la sua età, l’attrezzatura da pesca è così ridotta al minimo da sembrare addirittura primitiva. Alzo gli occhi e guardo adesso l’uomo, la cui attività di pescatore è evidente dall’attrezzatura di bordo; non l’ho mai visto ne in porto, ne in paese: mi appare molto vecchio, i radi capelli in testa bianchi come la barba che risalta sulla pelle del colore del cuoio vecchio, conciato dalle infinite ore trascorse in mare sotto il sole.



“Kalimera”. Il mio buongiorno accompagnato da un largo sorriso rimbalzano sull’espressione immobile dell’uomo, quasi al limite dell’indifferenza, che ci guarda senza rivelare nessuna emozione.
Mi accorgo del motivo dell’immobilità del vecchio pescatore: dallo scalmo di dritta pende un pezzo di corda talmente vecchia da essersi lacerata rendendo impossibile l’uso del remo. Mi pare impossibile che sia questa la causa dell’immobilità ma, imbarazzato dalla mancanza di reazioni del pescatore, decido sulla base dell’evidenza.
Tendo così un lungo pezzo di sagola, recuperata in un gavone, guardando con gli occhi il penzolo di corda lacerata, il vecchio guarda immobile il mio braccio teso all’estremità del quale si trova la soluzione immediata al suo problema. Il breve indugio rivela un’incertezza interiore fatta di orgoglio e diffidenza, ma alla fine si decide allungando la mano verso la mia. Il pescatore guarda la sagola e da sotto una cassetta estrae un vecchio coltello sulla cui lama affiorano isolate macchie di metallo in un mare di ruggine, taglia un pezzo di sagola che comincia ad annodare sullo scalmo. Resto allibito dalla precisione con cui ha valutato la lunghezza da tagliare: non un solo centimetro in più. Terminata l’operazione mi tende il braccio per restituirmi la sagola avanzata, accenno un rifiuto convinto di fare un utile dono, ma, per tutta risposta, il braccio ha un guizzo, e mi dice: “kalà”: bene così, nei suoi occhi capisco che non accetterebbe niente di più dell’indispensabile. Il mio greco elementare rende impossibile qualsiasi forma di conversazione così penso che sia arrivato il momento di separarci; ma un attimo prima di cominciare a muovermi il vecchio pescatore afferra con la mano una maniglia del gommone e con l’altra si tocca il petto dicendo: “Spiros”, ci guardiamo per un lungo interminabile attimo e ripetendo lo stesso gesto dico: “Giovanni”. L’uomo mi guarda, annuisce e mi dice: “efcharistò”, “parakalò” faccio di rimando, dando fondo al mio limitato vocabolario di greco dove le parole “grazie” e “prego” sono state le prime a essere memorizzate.
Mentre ci allontaniamo mi volto, di tanto in tanto, e vedo il vecchio che rema senza fretta in direzione del porto, quasi che le ore trascorse immobile in mezzo al mare, in attesa di aiuto, non fossero mai passate.



L’incontro è presto dimenticato e i giorni di vacanza si susseguono fino al giorno della partenza; partiamo per l’ultima escursione e sulla prua del gommone,ormeggiato, troviamo il nostro pezzetto di sagola arrotolato con sopra una bellissima conchiglia, Spiros è riuscito a effettuare la riparazione con mezzi propri e mi restituisce il favore con un bellissimo dono. Vorrei cercarlo per ringraziarlo ma fino alla partenza non riesco a vedere ne lui né la sua barca.
Dopo alcuni anni, di passaggio in quella zona, mi volli nuovamente fermare nel paese, per rivedere, anche solo per poco, quei luoghi di cui conservavo un memoria così vivida. Molto era cambiato e nel porticciolo erano ormeggiate le molte barche dei turisti. Seduto al tavolo della taverna chiesi al vecchio proprietario, che forse mi aveva riconosciuto, notizie di Spiros. Scuoteva la testa dicendo che Spiros era un tipo strano: taciturno e schivo con tutti, partiva la mattina presto con la sua barca e tornava la sera tardi, quasi sempre senza aver pescato niente, quasi che la sua occupazione fosse quella di andar per mare e non pescare. Mi disse che un giorno di qualche anno fa, non vedendolo rientrare, erano andati a cercarlo ma che avevano trovato solo la sua barca vuota alla deriva.
La notizia mi riempie di una tristezza evidente, tanto che il mio interlocutore si allontana con una scusa banale; volgo lo sguardo verso il mare aperto e chiudo per un istante gli occhi, ed ecco che nella testa risento improvvisamente quel “kalà” pronunciato, anni orsono, da un uomo che guardandomi per un solo brevissimo attimo aveva visto in me lo stesso amore per il mare che egli stesso provava e mi aveva regalato un dono prezioso che anche lui aveva ricevuto in dono a sua volta.




Percorriamo la strada del ritorno, che corre alta rispetto al mare, guardo in basso in direzione del paesino e per un solo brevissimo attimo mi sembra di intravedere sotto la superficie del mare, in prossimità della costa, i resti sommersi di una barca, con la stessa velocità con cui è apparsa la visione, prima tanto nitida, scompare tra i riflessi della superficie liquida.
Chiudo gli occhi con la certezza che Spiros, il pescatore, e la sua barca sono ancora insieme.