31 dicembre 2010

Vestivamo alla marinara



Viareggio, cielo coperto e libeccio teso, le nuvole si inseguono a bassa quota in una corsa senza fine, certo il tempo non è quello classico da vacanza al mare ma per Ila è sempre festa anche quando il sole è un desiderio; decidiamo quindi di andare sulla spiaggia per vedere le onde che scaricano rabbiosamente la loro furia sulla battigia deserta. Dopo qualche tempo però il vento riesce a strappare perfino l’entusiasmo di Ila nei cui occhi leggiamo una muta domanda: “Perché qui con questo tempo?”.
Il gioco è finito, solo il tempo per una foto rubata al volo e via a casa per una minestrina calda.
Gli anni passano e la foto finisce in un album insieme a tante altre, muta testimonianza di un piccolissimo frammento di vita vissuta, forse particolare per l’accostamento cromatico dei colori, ma niente di più; eppure quel giorno non  eri solo una bambina vestita alla marinara vicina ad un pattino di salvataggio, eri molto di più: la chiave per aprire la porta dei ricordi di un tempo passato.
Chiudo gli occhi e percepisco di nuovo l’odore della vernice fresca dei pattini pronti per la stagione, sento le urla di richiamo verso chi, sfidando i divieti categorici, si sedeva sul pattino di salvataggio; nella percezione di quel ricordo lontano perfino il vestitino alla marinara mi appare meno ridicolo.

29 dicembre 2010

Il cimitero delle navi morte


Costa occidentale greca: siamo di ritorno dall’isola di Itaca e nella luce del tardo pomeriggio la costa ci scorre alla nostra sinistra con monotona regolarità, quando, in fondo ad una ampia baia, vedo qualcosa di insolito che rompe la continuità della costa; la distanza non mi permette di distinguere i particolari e stimolato dalla curiosità penso che potrebbe valer la pena di ritardare il rientro per investigare con maggiore attenzione. Segnaliamo a Claudio, che ci segue a breve distanza, ed entrambi cominciamo ad accostare a terra per ridurre la distanza. Al termine della deviazione entriamo nella baia e vediamo lunghe file di vecchie navi ormeggiate bordo a bordo che attendono, divorate dalla ruggine, una improbabile partenza. Lo spettacolo che si presenta ai nostri occhi è decisamente inconsueto e a lento moto riduciamo le distanze entrando, a poco a poco, a far parte dell’irreale paesaggio.
Il rumore dei fuoribordo diventa un borbottio sommesso che evidenzia i rumori di sottofondo: gli schiocchi delle gomene di ormeggio che si tendono e gli scricchioli metallici delle strutture che si dilatano seguendo le variazioni termiche. L’acqua è immobile appena increspata dal lento avanzare dei gommoni e perfino il sole sembra scaldare meno di prima: siamo entrati nel cimitero delle navi morte.
Cedo la barra per scattare qualche foto, a futura memoria di un incontro a dir poco unico. Con l’occhio nel mirino l’isolamento dagli altri è maggiore, la mia visione si riduce al solo campo inquadrato e mentre osservo la scena inizio a pensare a quello che vedo.
Ho sempre pensato che l’uomo sia intimamente legato alla nave più di ogni altro manufatto da lui stesso creato. È infatti la nave l’unica che identifica in sé casa, mezzo di locomozione, luogo di socializzazione e lavoro. È la nave l’unico legame con la terra ferma durante le interminabili traversate. È la nave l’unico antidoto nel terrore della tempesta dove la furia dell’onda in arrivo arresta, ogni volta, il cuore per un lungo interminabile attimo. È la nave che riesce a catalizzare le capacità di ognuno nella certezza che il proprio errore può essere la morte per tutti. È stata infine la nave che, per prima, ha permesso all’uomo di scoprire la vastità del mondo e immediatamente dopo di accorciarne le distanze.
Per queste straordinarie capacità ho sempre considerato naturale che la sua ultima destinazione dovesse essere verso la profondità del mare.
È forse per questo che la vista di quelle navi ammassate, in attesa di essere tagliate in lamiere e avviate alla fonderia in omaggio ad una implacabile logica di profitto, mi suscitava inconsciamente un profondo senso di disagio.
Improvvisamente mi resi conto con chiarezza di dove mi trovavo: non ero entrato nel cimitero delle navi morte, mi trovavo in un posto di gran lunga peggiore: ero entrato nel cimitero delle navi dimenticate.


19 dicembre 2010

Oh Capitano, mio Capitano



Capitano che hai negli occhi il tuo nobile destino
pensi mai al marinaio a cui manca pane e vino
capitano che hai trovato principesse in ogni porto
pensi mai al rematore che sua moglie crede morto.



Capitano le tue colpe pago anch'io coi giorni miei
mentre il mio più gran peccato fa sorridere gli dei
e se muori è un re che muore la tua casa avrà un erede
quando io non torno a casa entran dentro fame e sete.




Capitano che risolvi con l'astuzia ogni avventura
ti ricordi di un soldato che ogni volta ha più paura
ma anche la paura in fondo mi dà sempre un gusto strano
se ci fosse ancora mondo sono pronto dove andiamo.
(Itaca L. Dalla)



 

7 dicembre 2010

L'isola che (non) c'è



Nord della Sardegna, Ila è già sveglia da qualche ora e abbiamo deciso di salpare di primo mattino per un giro tra le isole dell’arcipelago. Data l’ora il mare è deserto e ci godiamo la traversata in completa solitudine. Poco dopo la partenza Ila si addormenta avvolta nel suo giubbotto salvagente arancione, cullata dal rumore del fuoribordo e dal movimento liquido del gommone che scivola sul mare immobile come il cristallo. La costa scorre veloce alla nostra sinistra e in breve arriviamo in prossimità della nostra meta, ma Ila continua a dormire e non vogliamo interrompere il sogno che riusciamo a intuire nell’espressione del suo volto.
Per guadagnare tempo riduco l’andatura e cominciamo il periplo dell’isola sperando in un provvidenziale risveglio, l’andatura ridotta mi permette di accostare aiutandoci a cogliere i dettagli del paesaggio che ci scorre a lato, quando, nascosta da una punta, ci appare una piccola cala deserta: spiaggia bianca e acqua di una trasparenza irreale. L’appuntamento è di quelli da non mancare e Ila esce dal suo sogno e apre un occhio, ci guarda, ruota la testa, guarda la cala e voltandosi nuovamente verso di noi sorride: l’invito è chiaro e senza dire una parola accosto a terra.
Siamo ormeggiati e sbarchiamo le nostre cose: una borsa e un secchiello di plastica verde, inseparabile compagno di giochi di Ila.
Abbiamo la sensazione di essere estranei, non invitati, in casa d’altri e evitiamo di camminare sulla spiaggia per non contaminare l’equilibrio del luogo con le nostre orme, ma questa sorta di pudore irrazionale non contagia Ila che decide di gattonare sulla battigia; l’avanzare è incerto e dietro di lei, dopo il suo passaggio, la superficie levigata della sabbia ci appare martoriata dai solchi di profonde ferite. Ci guardiamo rendendoci conto di pensare alla stessa cosa e vorremmo prenderla per interrompere lo scempio del suo incedere da ruspa ma prima di arrivare ad attuare la nostra idea ci accorgiamo che il mare è stato più veloce di noi e la risacca della piccola onda cancella e livella i solchi; allora capiamo che come estranei siamo sicuramente non invitati ma forse benevolmente sopportati.
Il tempo scorre veloce passato a giocare sulla battigia e nell’acqua bassa ma senza mai valicare il confine dove tolleranza benevola si trasforma in dolore insopportabile, e presto arriva l’ora di rientrare, salpiamo l’ancora con la certezza che per tutta la vita ci ricorderemo dell’isola e della magia irreale della sua cala, e mentre il gommone scava un solco nel mare cobalto sorrido al pensiero che l’isola e la sua meravigliosa cala ci avrà certamente già dimenticato e non conserverà minimamente il nostro ricordo.



6 dicembre 2010

La leggenda degli apneisti

Molti anni orsono, su una spiaggia bruciata dal sole, incontrai un vecchio pescatore, sembrava aver vissuto mille anni, la gente del piccolo villaggio ricordava di averlo visto da sempre. Scoprii che condividevamo la passione per l’apnea e ci ritrovammo a parlare del mare e delle esperienze passate.
Il più bel momento passato insieme fu il giorno in cui mi confidò un grande segreto: la leggenda degli apneisti. Non mi raccontò come la leggenda fosse arrivata fino a lui ma quando pronunciò il nome di Dio lo guardai fisso negli occhi.
Egli continuò: “Così Dio consegnò a ciascun uomo un determinato periodo da trascorrere sulla terra, la fine di questo periodo era determinata dal numero di respiri donatici alla nascita. Ingiustizia, caso, destino, fortuna: sono tutte leggende che si perdono nell’oblio della notte dei tempi”.
E riprese:” Ma Dio dimenticò che l’uomo, che aveva appena creato, avrebbe imparato un giorno ad immergersi e rimanere così senza respirare. Fedele alla sua parola si impegnò a restituire, ad ogni apneista il numero di respiri che erano stati risparmiati stando sott’acqua”.
I suoi occhi si illuminarono quando terminò il suo racconto, affermando che solo gli apneisti erano in grado di riportare indietro le lancette del tempo. Senza preoccuparsi del mio stupore continuò: “Certo c’è un po’ più di lavoro da fare: ricordarsi delle discese effettuate da ciascuno, calcolare il tempo passato sott’acqua, riprendere la propria lista ed aggiungere i respiri trattenuti. Ma questi uomini devono avere qualcosa di speciale altrimenti li avrebbe trasformati in delfini già da molto tempo”. Poi mi sorrise con aria complice ed aggiunse: “Conosci forse un altro uomo che si complica la sua vita per divertirsi se non ne vale la pena ?”.